Egemonia o appropriazione? La battaglia delle idee nell’arena nazionalpopolare.
Sul palco di Sanremo Chiara Ferragni si è presentata con 3 abiti Dior dedicati alle istanze femministe, un progetto creativo di Maria Grazia Chiuri. Un caso scuola di quello che si chiama brand activism targato Ferragni-Dior.
Le operazioni di successo di brand activism sono caratterizzate da molti fattori, ma due sono imprescindibili:
👉 Attinenza tra persona/brand e tema su cui ci si schiera. Non è la prima volta che Ferragni si schiera su tematiche inerenti il femminismo, seppur da una prospettiva liberal, non intersezionale e ovviamente senza mai mettere in discussione il proprio privilegio. Per il grande pubblico non politicizzato è più che sufficiente.
👉 Le parole non bastano, serve agire concretamente. In questo caso donare il proprio compenso a D.i.Re — Donne in Rete contro la violenza e portarle sul palco veicolando un messaggio importante dal palco più importante.
L’ottima esecuzione dal punto di vista comunicativo-pubblicitario di chi ha messo in piedi l’operazione (parlo dei vestiti, non del monologo e della conduzione) consente di schivare buona parte delle insidie del washing. L’impatto mediatico su social e media mainstream è stato molto elevato, nonostante la sfuriata di Blanco le abbia rubato parte della scena memetica.
Il primo abito di Ferragni è, infatti, anche pensato per diventare un meme e in effetti lo diventa in pochi secondi.
“Pensati libera” è stata presentata come una citazione di un’opera di un’artista femminista, Claire Fontaine, ma in realtà l’opera di Claire Fontaine ha fotografato una scritta realizzata su un muro da cicatrici.nere, street e tatoo artist di Bologna, non citato né dalla maison né dall’influencer. Più che una citazione, questa sì è stata una appropriazione indebita.
Su questa vicenda però non si sono sollevate polemiche, che invece infuriano su altro, in uno scontro tra followers di Chiara e detrattori di Ferragni. Come prevedibile.
Non è mancata la polarizzazione che da sempre accompagna la figura-brand Ferragni, ma se vogliamo cogliere l’occasione di andare un po’ più in profondità, più che discutere di Ferragni e del suo discorso-selfie a sé stessa bambina possiamo cogliere l’occasione per discutere di questioni più importanti?
Non è Chiara Ferragni a dover rappresentare le istanze sociali della sinistra. Non è né l’eroina che ci meritiamo, né quella di cui abbiamo bisogno, semplicemente non è un’eroina, è una imprenditrice e un personaggio pubblico, che come da sempre fanno i personaggi pubblici, prende posizione sui temi e li usa per definire il proprio profilo.
Nella storia della televisione italiana a svolgere questo ruolo e ad avere un alto impatto mediatico sono stati prevalentemente maschi e sempre persone la cui vita non era raccontata h24 a milioni di persone. Il loro protagonismo suscitava flame meno polemici.
Come ha scritto Ella Marciello “se [dal monologo di Ferragni] ci aspettavamo femminismo e messaggi politici forse l’errore è nostro”.
In ogni caso non sono certo io a dover e poter dar pagelle di femminismo e in generale noi che commentiamo ogni episodio sanremese faremmo bene a non focalizzarci su questo punto.
Dal punto di vista di un attivista e di un professionista che lavora nel settore della comunicazione — un’ottima occasione per discutere di altro: l’utilizzo di istanze sociali da parte di un brand e il rapporto con i movimenti.
Non è certo la prima volta che Dior fa una operazione simile, anzi. La celebre t-shirt “WE SHOULD ALL BE FEMINISTS” venduta a 922 € riassume benissimo le contraddizioni di un femminismo che non affronta il tema del privilegio.
Nella sfilata leccese organizzata da Chiuri nella sua terra d’origine in una piazza Sant’Oronzo colma di luminarie splendeva la citazione potentissima di Carla Lonzi che recitava “la differenza per le donne sono millenni di assenza dalla storia”.
Ma non è solo Dior a mettere in campo queste pratiche, posizionando il brand su istanze e temi sociali. È una costante dei tempi in cui viviamo. Il purpose e il posizionamento valoriale del brand sono sempre più la norma del settore pubblicitario.
Angela Davis, storica attivista marxista, antirazzista e femminista, commentando il bellissimo spot Nike con Kaepernick e le foto dell’ex giocatore NFL che richiamano l’estetica delle black panther dichiarò “è sconfortante scoprire che una sola generazione dopo gli eventi che mi hanno reso una personalità pubblica, venga ricordata solo come uno stile, una pettinatura”.
Quello spot aveva cavalcato la polarizzazione dello scontro tra Black Lives Matter e Donald Trump, arrivando a diventare centrale e nel farlo ha certamente “usato” le istanze antirazziste, ma forse ha anche contribuito a politicizzare una enorme fetta di pubblico che era interessata ai canestri di Lebron James più che alle manifestazioni di BLM. Quanto ha sfruttato il terreno (ottenendo un + 31% di vendite nell’e-commerce) e quanto ha preparato il terreno a nuove ondate di indignazione e magari di mobilitazione? Non è un dato misurabile, ma un impatto c’è stato su entrambi i fronti.
Nike ha provato a essere al centro della scena polarizzata, e grazie alla campagna di boicottaggio #BurnYourNikes e ai tweet di Donald Trump ci è anche riuscita per qualche settimana, ma i movimenti di massa radicali e il protagonismo delle comunità BIPOC statunitensi si sono spesso ripresi la scena.
In un articolo su The Atlantic Saida Grundy a proposito di quella operazione commerciale ha scritto
“la mercificazione del discorso politico di Kaepernick lo dirotta da messaggio politico a spot sulla forza di volontà […] gli spettatori sono invitati a credere al mito che la fine del razzismo strutturale possa essere ottenuta essenzialmente con la stessa perseveranza necessaria per padroneggiare un kick flip sullo skateboard.”
Il messaggio sussunto dal brand e normalizzato perde quindi di conflittualità. Davanti a questa “invasione di campo” dei brand nel terreno — in questo caso — del femminismo ci sono principalmente due differenti letture:
📣 IL MEGAFONO 📣
Queste operazioni danno voce all’istanza femminista, amplificano il messaggio, specialmente se sostengono una iniziativa concreta nella società come in questo caso l’attività fondamentale dei centri antiviolenza. Portare questi temi davanti a milioni di persone e facendoli diventare sempre più mainstream incide sul senso comune e crea un terreno più agevole per le lotte dal basso.
💰IL FURTO 💰
È la mercificazione e la normalizzazione del conflitto. È una appropriazione di una istanza radicale che viene masticata e risputata come prodotto commerciale. Le lotte dal basso, specialmente se intersezionali rimangono schiacciate dentro la macchina commerciale e fanno molta più fatica a emergere dalla palude di banalizzazione.
Queste due letture hanno entrambe qualcosa di profondamente vero. La realtà non è statica, le battaglie sono dinamiche, le alleanze variabili e tutto cambia in base all’agenda setting, alle dinamiche sociali e al contesto in cui sono calati e agli attori in campo.
Quel che deve tornare al centro della discussione non è se Ferragni è parte del cambiamento e dei movimenti femministi, ma in che modo chi non è in quella condizione di privilegio riesce a cambiare la cultura e il senso comune nel quadro dei rapporti di forza in cui viviamo.
C’è, infatti, solo un elemento più importante delle parole e delle immagini in uno scontro per l’egemonia culturale: i rapporti di forza. Quante risorse abbiamo, che spazio mediatico riusciamo a conquistare, con che disparità di mezzi combattiamo, il grado di organizzazione e ovviamente quanti siamo.
A concorrere alla lotta per l’egemonia sono i movimenti sociali dal basso, i leader politici dall’alto, i giornali e i media mainstream con il carico di interessi economici dei loro editori, il mondo della produzione musicale, culturale, letteraria, artistica e cinematografica, e ovviamente anche gli influencer e la pubblicità.
Sono attori diversi, con interessi e bisogni spesso contrapposti, con una profonda sproporzione di risorse e strumenti, ma sono attori che usano gli stessi strumenti: parole e immagini per plasmare l’immaginario e quindi la realtà. I frame comunicativi che maneggia chi fa attivismo sono gli stessi di chi fa pubblicità.
Tranne rari casi gli interessi non coincidono, le parole sì.
Il modo in cui un attivista usa il proprio corpo in un’azione di protesta è performance, il modo in cui imbratta il vetro protettivo di un quadro celebre è performance, quella di Chiara Ferragni è una performance.
Se tutto è performance cosa differenzia una performance conflittuale da una a-conflittuale? Ovviamente un indicatore significativo, ma non esaustivo è il ritorno della performance/messaggio: a muovere l’azione è il profitto individuale/di pochi o il benessere collettivo/di tanti?
L’indicatore dell’interesse economico non è ovviamente esaustivo perché un film, una canzone, una pubblicità, un discorso di una celebrity possono ispirare una trasformazione profonda della società.
Non c’è una matrice/regola aurea per definire il tasso di conflittualità e di compatibilità con il sistema. Un buon indicatore è dato però dal modo in cui si affrontano le faglie legate al tema delle diseguaglianze e del privilegio.
Se si eludono i nodi che determinano il mantenimento dello status quo consentendo il perpetrarsi delle gerarchie di potere saremo davanti a una azione/messaggio aconflittuale, senza attrito. Più toccheremo corde che mettono in discussione privilegi a combattono diseguaglianze di potere ed economiche, con azioni fuori dagli schemi maggiore sarà l’attrito e il fastidio provocato dall’azione.
Parole, immagini, storie, corpi… tutto quello che si mette in campo in una battaglia per plasmare il mondo è immerso nel mondo e può essere usato e ribaltato, da noi e contro di noi.
Se il messaggio sfonda il muro di gomma e raggiunge il grande pubblico diventando “virale” può essere sussunto e usato dall’avversario o diventare egemonico. Usiamo le parole e progettiamo azioni con questa consapevolezza.
I rapporti di forza si possono ribaltare e si può lavorare sulla tavola apparecchiata da un brand usando le sue campagne esattamente come il brand ha usato le parole dei movimenti.
La cultura nazionalpopolare è un terreno di battaglia, e non è un caso che il termine coniato da Gramsci sia anche il termine che più di tutti descrive il festival di Sanremo.
Per dirla con Debord viviamo in un mondo “immersi in un immenso accumulo di spettacoli”, per cambiarlo non ci resta che andare in scena!
P.S. questo articolo è scritto con la voce di Amadeus che presenta la seconda serata in sottofondo. Perdonatemi eventuali salti logici.