Evviva il ban, abbasso le piattaforme
Donald Trump è stato bloccato da Twitter e rischia il ban dalle altre piattaforme. Bene! Ma è giusto che a decidere siano i giganti del digitale?
Non credo che i fascisti e neofascisti di ogni nazionalità abbiano diritto ad esprimere le proprie opinioni. Non difendo certo il diritto di parola dei suprematisti bianchi e dei i nazisti siano essi dell’Illinois o dell’Arkansas. Li odio senza alcuna esitazione.
Sono convintamente antifascista, ma sono anche un comunista che crede che oggi l’accumulazione di enormi ricchezze, vada di pari passo con l’accumulazione di enormi quantità di dati. Penso che il capitalismo delle piattaforme, o “ capitalismo della sorveglianza” (Zuboff) sia un pericolo concreto per la tenuta di qualunque società democratica.
Mi trovo quindi in una difficile posizione: da un lato sono istintivamente contento che i messaggi di odio diffusi per anni dai canali social del quasi ex Presidente USA siano stati fermati, dall’altro lato sono molto perplesso per il modo con cui si decide e soprattutto per chi decide.
“La piattaforma è mia e la gestisco io”
Twitter ha sospeso del tutto l’account realdonaldtrump con un comunicato molto dettagliato; lo ha fatto dopo numerosi altri interventi basati su disclaimer e limitazioni.
Facebook ha deciso di bloccare Trump fino al completamento della transizione con Biden. Qui c’è il comunicato ufficiale di Facebook, qui il post di Zuckerberg. Anche Twitch (proprietà di Amazon), Snapchat e Shopify hanno limitato i suoi account.
Ogni giorno su queste piattaforme vengono bannati secondo diverse procedure, decine di migliaia di account e centinaia di migliaia di contenuti in tutto il mondo. Che si tratti del canale social di un uomo potente come Trump, di un movimento politico o di un singolo attivista o cittadino, il ban di un account social è una scelta unilaterale e senza appello. “La piattaforma è mia e la gestisco io”, potrebbe dire Mark Zuckerberg, e avrebbe ragione.
Le decisioni censorie non sono sindacabili. Che si tratti di una scelta automatizzata per un capezzolo troppo visibile, che sia approvata da un ignoto operatore in un ufficio portoghese o irlandese o che a decidere sia direttamente il CEO della piattaforma cambia poco.
Se viene chiusa una pagina, sospeso un account pubblicitario con annesso business manager, puoi cercare molteplici strade per ricorrere sperando in una retromarcia, puoi protestare, ma non esiste alcun tribunale di Facebook, non c’è alcuna certezza della pena né possibilità di assoluzione.
L’equilibrio tra i poteri
Nel caso di Donald Trump l’incitazione all’odio è evidente, e quindi è stata commessa una violazione della normativa interna della piattaforma. Qui si può leggere la normativa FB su istigazione alla violenza o su persone e organizzazioni pericolose. Come scrive Arianna Ciccone in un articolo (di cui non condivido le conclusioni) “@Fiorellino86 con i suoi 50 follower se incita all’odio, alla violenza e al terrorismo viene bloccata sui social per il mancato rispetto dei termini di servizio” stessa cosa, sostiene, deve avvenire per qualunque altro utente, anche se è Presidente USA.
Ma siamo sicuri che si possa trattare fiorellino86 come un presidente eletto? Si può bannare qualcuno senza possibilità di ricorso e terzietà nel giudizio? In quale ordine gerarchico sono le policy delle piattaforme rispetto alla legge?
Possiamo accettare che i governi nazionali non siano in grado (o abbiano scelto di non essere in grado) di imporre leggi alle piattaforme globali, ma le piattaforme globali possano imporre scelte ai governi nazionali?
Una delle argomentazioni a sostegno del ban è “se non ti piacciono le regole di Facebook vai da un’altra parte”. Ma siamo sicuri si possa andare da un’altra parte? O forse dire “rinuncia a Facebook” equivale a dire “non andare in TV”?
Può chi conduce una battaglia politica o governa una nazione stare fuori dalle piattaforme? Difficile.
Si chiede Dino Amenduni “questa attenzione varrà solo per chi perde le elezioni? Varrà solo negli Stati Uniti? Varrà solo per i politici? E se sì, perché?” Cosa succederà d’ora in poi a casi analoghi, magari in caso di figure appena salite al potere e non a fine mandato?
I giganti del digitale negli scorsi mesi sono stati al centro di audizioni proprio in quel Campidoglio assaltato il 6 gennaio. Sono da tempo sotto pressione e ciò non fa bene alle loro mire espansionistiche e ai loro profitti. Non sono mai stati grandi fan di Trump, anche se Google e Amazon hanno sostenuto le campagne elettorali di molti repubblicani. Ma viene da chiedersi: se non avessero l’esigenza di riposizionarsi rispetto al nuovo blocco di potere che si sta per insediare negli USA, sarebbero stati così netti nelle prese di posizione? Non lo possiamo sapere.
Le democrazie liberali si fondano sulla divisione tra i poteri dello Stato costituito. Ma se un pezzo di questi poteri si è spostato nelle mani di corporation internazionali, che si muovono quasi senza giurisdizione, eludono tasse, violano regole e determinano molto della nostra vita pubblica possiamo ritenere esista ancora un equilibrio tra poteri? O forse in questa asimmetria c’è una delle ragioni della crisi delle democrazie?
Oggi l’episodio di cui discutiamo è così eclatante che lascia poco spazio alla difesa: la violazione è quasi palese. Ma vista la discrezionalità della policy e la scarsa trasparenza della modalità di giudizio che assicurazioni abbiamo per il futuro delle nostre democrazie?
Forse è difficile trovare una soluzione a questo singolo problema perché guardiamo le cose da una prospettiva sbagliata. Il ban è giusto, la piattaforma è “sbagliata”.
È un bene che Trump sia stato bannato dalle piattaforme social? Sì.
È un bene che a bannarlo siano grandi corporation private sulla base di scelte puramente discrezionali? No.
Il potere legislativo delle piattaforme: too big to ban
Non esistono tribunali dei social, ma esistono le leggi delle piattaforme. Le policy sulla diffusione di odio e violenza esistono e sono scritte in modo comprensibile a tutti. Meno chiaro è però quale sia il confine relativo alla definizione di odio e incitamento alla violenza. Un primo problema è il tasso di discrezionalità, il secondo problema è chi detiene la possibilità di scegliere.
La scelta di rimozione di un contenuto viene spesso presentata come automatica. “È stato l’algoritmo”. Non è così. Ovviamente su enormi volumi di contenuti monitorati, molto viene affidato ad automatismi non ancora perfetti: un classico errore di FB è il ban di un contenuto antirazzista perché denuncia un razzista usando le sue parole. Ma dietro l’automatismo c’è una scelta di politica aziendale su cosa è consentito e cosa è proibito.
Le policy di Facebook ad esempio riguardano 2,7 miliardi di utenti. Esiste un’altra “legislazione” che riguarda un numero così ampio di persone? E che potere hanno i cittadini di Facebook su quelle policy”? Saremo sempre più spesso costretti a protestare davanti alle sedi delle grandi del digitale per chiedere di cambiarle?
Mi si dirà: non è una vera legislazione, è un contratto privato stipulato tra liberi cittadini e una società privata. Lo so. Ma quando il medesimo contratto viene stipulato, (senza che nessuno lo legga) da metà della popolazione mondiale siamo ancora nel comune diritto privato? O il suo impatto su scala planetaria meriterebbe un’altro approccio dal punto di vista del diritto e quindi della politica?
Come mi chiedevo in questo articolo anni fa Facebook, Amazon e Google non sono forse troppo grandi per essere proprietà privata? Troppo grandi per numero di utenti e mole di dati, per quantità di informazioni user generated, per ore che ciascuno trascorre al loro interno, per valore economico delle corporation e per il modo in cui contribuiscono alla definizione della nostra identità e della sua rappresentazione, per l’impatto che hanno sulle nostre democrazie.
Forse sono anche troppo grandi, e hanno troppi interessi in ballo, e troppo potere per poter decidere chi può parlare e cosa può dire.
Sono piattaforme che rappresentano un oligopolio e ciascuna di loro tende al monopolio. Si ingrandiscono cannibalizzando tutto, inglobando e trasformando mercati e idee, divorando tempo e dati. Sono enormi, troppo.
Il punto non è se Facebook, Twitter e co. hanno fatto bene o male. Il punto di cui dovremmo discutere è perché spetti a loro decidere cosa sia giusto e cosa no. È arrivato il momento di discutere dell’assenza di intervento di governi e parlamenti nella regolamentazione del digitale, e ancora di più della necessità di autorità terze internazionali legittimate a intervenire e regolamentare il settore.
Dobbiamo riprendere il controllo su internet conquistando una gestione pubblica e democratica di quella che è una delle infrastrutture principali del nostro tempo.
Sorvegliare, punire, monetizzare
Facebook interviene costantemente con strumenti di controllo ad ampio raggio, monitorando conversazioni pubbliche e private.
In questo articolo descrivono la loro azione antiterrorismo su contenuti correlati a ISIS, Al-Qaeda ecc. Viene persino effettuato un controllo a strascico delle conversazioni di messaggistica in grado di riconoscere contenuti correlati ai messaggi terroristici. Ogni anno vengono rimossi milioni di contenuti di questa tipologia.
Ma se il problema fosse solo il ban dei gruppi terroristici sarebbe tutto molto più semplice. Certo, avremmo da discutere sulle violazioni della privacy da parte dei software che per stessa ammissione di Facebook scansiona le nostre conversazioni di messaggistica, ma questa è in parte un’altra storia.
L’attività di controllo e rimozione contenuti va ben oltre l’ISIS. Ci scommetterei che vengono bannati più capezzoli che terroristi. La scure delle piattaforme si può abbattere su ogni tema, persona, gruppo. E se nel caso del ban di Trump avviene con un’inevitabile dimensione pubblica, nella maggior parte dei casi accade nel silenzio: una notifica, un account disattivato, una contestazione, una risposta automatica, una nuova contestazione, il silenzio...
Per fare un esempio, Eddi Marcucci, tornata dalla Siria dopo aver combattuto contro l’ISIS con i curdi dell’YPJ Unità di Protezione delle Donne è stata sottoposta dal tribunale di Torino a regime di sorveglianza speciale. Nelle scorse settimane si è vista sospendere gli account social, senza ricevere alcuna notifica o comunicazione ufficiale. Formalmente non c’è alcun ruolo del tribunale in questa sospensione. Lo racconta bene ZeroCalcare qui. Chi lotta concretamente contro il terrorismo viene bannato, sulla base di quale principio? Chi lo ha deciso? Non si sa.
Supponiamo di essere (per assurdo) in un futuro distopico, in cui 26 individui posseggono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone! Davanti a queste ingiustizie immaginiamo siano in ascesa nuove leadership socialiste che si battono per espropriare le ricchezze di questi 26 individui. Poniamo caso che -sempre in questo futuro ipotetico- tra i più ricchi ci siano i proprietari di tali piattaforme. Supponiamo che a seguito di queste battaglie politiche una grande manifestazione inferocita prenda d’assalto la sede principale di Amazon a Beacon Hill e poco dopo folle di tutte le nazionalità saccheggino i magazzini logistici Amazon in tante altre zone del pianeta. Cosa accadrebbe? I leader politici socialisti verrebbero bannati per aver incitato la rivolta? La messa in discussione della proprietà privata vìola i principi universali su cui dicono di fondarsi le policy delle piattaforme?
Chi decide cosa è “tema sensibile”? Chi decide cosa è una violazione? Come funziona l’algoritmo che compie queste scelte? Qual è il nome e l’orientamento politico del dipendente di Facebook che ha deciso di bannare un post perché “vìola gli standard”? In quali casi esiste un contatto e una cooperazione tra forze di polizia e piattaforme e in quali casi i nostri dati vengono condivisi con loro sulla base dei principi di lotta al terrorismo e contrasto all’odio? Chi decide cosa alimenta l’odio e cosa è lotta politica? Chi decide cosa è compatibile con i “nostri valori fondamentali”?
Sono stati i social!
Nel comunicato di Facebook sull’assalto al Campidoglio si legge che sono stati rimossi anche “tutti i contenuti che chiamavano alla protesta anche se pacifica, ma in violazione del coprifuoco a Washington DC”.
Dieci anni fa, tra Occupy Wall Street e il movimento 15-M in Spagna, ma soprattutto con le primavere arabe siamo stati sommersi dalla retorica pro social media: “le rivoluzioni di Facebook”, “la rivolta corre sui social”, “Twitter = democrazia”.
I social erano lo strumento salvifico che diffondeva speranza di libertà e possibilità di rivolta. Se le piattaforme si adeguavano a leggi che vietavano manifestazioni pacifiche o bannavano i manifestanti erano -giustamente- accusate di collaborare con il nemico.
È giusto che una piattaforma decida di bannare contenuti che incitano a proteste pacifiche se in violazione dalla legge? Non dovevano i social essere gli strumenti anche di disobbedienza civile in grado di restituire potere alla cittadinanza? C’è chi risponderà convintamente “No, i social devono rispettare le leggi”. Ok, ma allora cominciamo con il rispetto delle norme sulla privacy, delle leggi sulla tassazione continuamente eluse. Forse è benaltrismo, forse solo rabbia e frustrazione per quello che è diventato il world wide web e quello spazio libero e orizzontale della promessa originaria, oggi ostaggio delle grandi corporation. Di certo c’è che ho difficoltà culturali a incitare alla repressione poliziesca si svolga essa in piazza o online.
Facebook e Twitter erano sinonimo di democrazia, ci dicevano. Oggi, a leggere gli stessi giornali, sono il suo opposto. La retorica è totalmente ribaltata: se abbiamo pericolosi fascisti al potere è colpa dei social.
Ci dicono: Bolsonaro è salito al potere con Facebook, non a seguito di un golpe giudiziario che ha portato Lula in carcere. Trump ha vinto grazie a Twitter e al gerrymindering digitale, non perché i democratici hanno candidato Hillary Clinton e si sono opposti a misure redistributive lasciando che milioni di uomini bianchi e frustrati del ceto medio impoverito, si radicalizzassero. È colpa di TikTok. Non è colpa della timidezza delle sinistre, dell’inconsistenza dei dem o della subalternità dei liberali.
Non è mai colpa della televisione, di giornalisti pronti ad assecondare il potente di turno, dei media mainstream che diffondono messaggi divisivi, fake news e discorsi di odio perché “fanno alzare gli ascolti”.
Sarebbe il caso di ricordare che, quel che ha detto Donald Trump in questi anni, non è passato solo dai social media. È stato trasmesso, rilanciato e ripreso spesso senza filtro o commento, dai media di tutto il mondo occidentale.
Gli assaltatori di Capitol Hill non esistevano solo su 4chan. Mark and Patricia McCloskey, la coppia che ha puntato i fucili d’assalto sui manifestanti di Black Lives Matter è stata intervistata da grandi emittenti TV e ha parlato alla convention repubblicana.
L’assalto al Campidoglio non è frutto del web, i social non attentano alla democrazia. Gli attori politici e i gruppi organizzati sì.
Il problema è un po’ più profondo e non riguarda solo gli strumenti di comunicazione. I social media sono solo lo specchio di quel che sta accadendo in profondità, all’interno di una società divisa, diseguale e rancorosa che ripone sempre meno fiducia nelle istituzioni.
Il problema non è tecnologico, ma politico.
Il paradosso della tolleranza
Come stabilisce il paradosso della tolleranza di Karl Popper, se si vuole garantire la tolleranza nella società aperta è necessario essere intollerante nei confronti dell’intolleranza.
Non credo che i neofascisti debbano poter partecipare alle elezioni, avere diritto di parola nei dibattiti politici; quando sono stato invitato a partecipare confronti in cui era prevista la loro presenza ho rifiutato l’invito.
Nel mondo reale però fascisti e fascistoidi hanno piena agibilità politica. Le loro espressioni istituzionali governano o contendono il governo in importanti paesi del mondo. I gruppi neofascisti più radicali occupano le piazze, vengono invitati in televisione. I complottisti di qAnon iniziano ad avere anche eletti al Congresso USA. Il problema della loro agibilità sulle piattaforme è solo una piccola parte di un problema più grande e complesso.
L’obiettivo dovrebbe essere togliere agibilità politica a gruppi e leader politici razzisti, autoritari e violenti, non solo online. Che Trump non possa più twittare, ma abbia ancora per qualche giorno la valigetta atomica la dice lunga.
Serve arginare il monopolio delle piattaforme, e lottare nella società contro fascisti e razzisti. Non sperare che le piattaforme e i loro gestori possano portare avanti la lotta antifascista.
Certo, in questo contesto il ban di account che diffondo odio e propaganda fascista non può che essere utile a vincere una battaglia, ma non è la strada efficace per sconfiggerli definitivamente.
Può servire a mettere la polvere sotto il tappeto, ma prima o poi quel che si muove nella società da qualche parte torna a galla.
Solo una piccola parte del contrasto al fascismo che cresce nella società può avvenire per proibizioni e interventi normativi, la gran parte del problema passa dalla politica e dall’impatto che determinate battaglie e misure socio economiche possono avere nella società.
Affidare a grandi corporation private il compito di difendere il bene comune e e la tenuta democratica non mi pare una soluzione sensata.
Togliere l’acqua fatta di rancore e diseguaglianze in cui sguazzano i fascisti è senza dubbio più efficace che togliere loro la voce o il traffico dati.
Non ci sono scorciatoie semplici.
P.S. Ovviamente tutto questo pippone non toglie che sorrido moltissimo nell’immaginare la scena di Donald Trump che cerca la password di My Space